Quello di cui non si parla

Scritto da: Elena Paolucci

domenica, 27 Gennaio 2019


C’è un bene anche nei momenti peggiori della storia, lo dimostra il “Giardino dei Giusti” a Gerusalemme.

Nato il 1962 è dedicato a coloro che nel tempo hanno aiutato e salvato vite umane, rifiutandosi di cedere alle discriminazioni raziali. Il merito di questo giardino va a Mashe Bejski che per tutta la sua vita ha ricercato i “giusti”, trovandone più di 20.000 con 624 italiani.

Fra i “giusti tra le Nazioni”, con cittadinanza onoraria dello stato di Israele, troviamo uomini, donne e famiglie che hanno protetto i perseguitati della guerra.

Come Giorgio Perlasca che fingendosi console spagnolo, aiutava gli ebrei a evitare la deportazione.

Carlo Angela, dottore che falsificava i certificati medici nascondendo gli ebrei negli ospedali.

Silvio Revoir che lavorando all’anagrafe falsificava i documenti anagrafici.

Paolo Salvatore, direttore del campo di concentramento di Ferramonti, che aiutava gli ebrei a sopravvivere.

Giuseppe Grandi che con le parole “erano esseri umani e andavano salvati” nascondeva gli ebrei nella sua casa in Svizzera.

O famiglie come quella di Arturo Carlo Jenolo, che nella sua casa a Roma nascondeva altre due famiglie ebree.

Tutti loro oggi sono ricordati nel “giardino dei giusti” sotto forma di alberi, come coloro che “hanno capito tutto”, coloro che hanno fatto la scelta giusta quando questa era sbagliata, in un momento in cui disubbidire significava morire.

Il giorno della memoria, 27 Gennaio, rappresenta quel momento di vita da non dimenticare e con esso queste parole: Shoah= “catastrofe”, “distruzione”, termine più corretto per indicare l’Olocausto= “tutto bruciato”

Tutti parlano della solita storia raccontata dai libri, quella degli ebrei che dalla prima metà del XX secolo furono perseguitati e uccisi dalla Germania nazista, arrivando a contarne circa 5/6 milioni. Ma se chiedessimo ai sopravvissuti?

Tra i 100.555 uno è Israel Kristal, uomo che a 112 anni e 178 giorni ha ricevuto il Guinnes Word Records come uomo più vecchio del mondo, ma con il peso dei ricordi di Aushwitz.

Un’altra è l’attuale senatrice a vita Liliana Segre, che all’età di 13anni fu deportata col padre in campo di concentramento. Ha testimoniato che il padre l’ha affidata a una signora che conoscevano non appena si era accorto che i soldati stavano separando gli uomini dalle donne. Quando si è presentata davanti alle guardie, dopo le generalità, le hanno chiesto “Alaine?”. Liliana sapeva significasse “sola” e rispose sì, fu divisa dalla signora e le sue figlie. La ragazzina di 13anni non rivede più ne il padre ne quelle donne.

Un’altra dichiarazione che fece fu che, le uniche cose che i suoi occhi riuscirono a vedere furono il freddo e l’indifferenza delle persone che la spaventavano.

Uno scrittore autobiografico di questa realtà fu Primo Levi, che nel suo romanzo “Se questo è un uomo” descrisse la sua esperienza, dagli isolamenti sociali alla deportazione e infine alla liberazione. Ogni loro racconto parla non solo di paura, pianti e tanto silenzio, ma anche di una grande solidarietà, aiuto reciproco in un momento di bisogno, privazione e necessità generale.

“il giorno della memoria non deve solo essere il ricordo di qualcuno che si è distinto per la giustizia, ma un invito a essere giusti nell’oggi, ovvero persone che accolgono, rispettano, tutelano e valorizzano l’umanità senza distinzione, ma col grande desiderio di condividerne l’esistenza e i valori”, cosi pensa il  prof. di religione Gallina A.

Auschwitz e campi di concentramento  

Campo di concentramento : struttura carceraria all’aperto adatta alla detenzione di civili o militari.

Alcuni dei sopravvissuti raccontano come dal binario 21 della stazione di Milano Centrale siano partiti dal 6/12/1943, 600 civili con alcuni detenuti del San Vittore. Il viaggio era in vagoni adibiti al bestiame, dove più di 50 persone venivano ammassate e rinchiuse  tra pianti, disperazione e silenzio di coloro che sanno di dover morire. Cercavano di convivere nel miglior modo possibile nonostante la paura e l’ignoto della destinazione. Dalla stazione di Milano erano partiti 23 convogli con più di 120 italiani.

I deportati, una volta arrivati alla fine del viaggio ,venivano buttati giù dal treno e privati dai pochi oggetti personali che avevano portato con loro. Poi venivano divisi in due gruppi, quello delle donne e quello degli uomini e successivamente in  uno più numeroso e in uno più esiguo. Il primo era destinato alla morte, mentre il secondo era ritenuto abile al lavoro. I soldati che li controllavano e maltrattavano appartenevano per la maggior parte alle SS, ma venivano anche utilizzati i Capo’.Questi erano prigioneri ebrei  che mantenevano la disciplina in cambio di un trattamento migliore(cibo e alloggio) . Anchei i cani venivano liberati e aizzati contro gli ebrei.

Per dormire venivano messi in baracche che erano originariamente destinate a essere stalle per cavalli, con una sola stufa in mezzo, mai accesa per risparmiare. Sulle travi, sopra le loro teste, c’erano incise delle frasi come “sii onesto” e “pulizia e salute”, frasi di scherno per chi ci stava sotto.

Un’altra frase umiliante era quella all’entrata del campo “il lavoro rende liberi”.

Il campo di concentramento era un ottima “macchina per la morte”, dove le persone soccombevano al volere di altre persone.

Come sopravvivevano gli ebrei?

Musica. La musica era uno strumento di distrazione, liberazione e un modo per salvarsi.  In ogni campo c’era almeno un’orchestra, ad Auschwitz addirittura sei tra cui una femminile. Il musicista Weistern ha dedicato molto del suo tempo alla restaurazione dei violini originari degli ebrei e ha eseguito alcune delle loro composizioni trovate scritte di nascosto sui sacchi.

Ma oggi, dopo tanto tempo, cosa ne rimane?

Oggi nel campo più famoso della Polonia, tra le macerie ,spiccano degli alberi di pioppo altissimi. Pochi sanno ,però, che il concime per quel terreno erano le ceneri delle persone bruciate. All’interno del museo, posto in un area del campo, troviamo anche i resti degli oggetti quotidiani e personali. Valige, che contenevano le speranze, i sogni e il futuro degli ebrei. Gli utensili che rappresentavano l’immagine di una famiglia radunata in una cucina per stare insieme. Scarpe grandi e piccole di uomini e donne con il peso della vita e dell’età, ma anche scarpe di bambini con ancora tanto da imparare e da sbagliare.Occhiali di quelle persone che volevano vedere chiaramente le facce di chi amavano. Vite. Quei campi contenevano vite, solo vite. A ricordarlo anche i nome scritti in bianco al binario 21 in nome dei deceduti prima delle liberazione.

“È accaduto, quindi potrebbe accadere di nuovo…” ce lo sentiamo sempre dire, ma è una frase che viene banalizzata, ma su una cosa dobbiamo essere tutti d’accordo: non dobbiamo essere INDIFFERENTI. I sopravvissuti hanno dichiarato  di cosa avevano più paura: un ritorno del passato!




Le nostre classi e la giornata della memoria

Per non dimenticare anche le nostre classi si sono date da fare, tra letture in classe, spettacoli a teatro e video.

Lo spettacolo che alcuni prof hanno scelto di far vedere si intitola “Destinatario Sconosciuto” ed è tratto dal libro di Katherine Kressmann sulla shoah. Altri hanno preferito fare letture in classe come quella tratta dal libro di Giacomo Debenedetti “16 ottobre 1943”, basato sulla distruzione del ghetto ebraico romano. Altri ancora hanno optato per un film “Viaggio senza ritorno” sul viaggio degli ebrei. Tutti a loro modo possono insegnare ai più giovani, e non solo, a ricordare. 

Con l’aiuto del professore A. Gallina che ci ha permesso di partecipare a due sue lezioni in 5°T e 4°T e le informazioni di anonimi.