Tutto quello che facciamo online e offline è un dato, un piccolo pezzo di noi che cediamo a terzi, in modo più o meno consapevole.
I data broker ne san qualcosa a riguardo, tanto che vi hanno fatto un business: commercio di dati.
Se vi è una offerta esiste una domanda: molte e diverse società interessate allo studio dei profili per indirizzare i loro prodotti in modo mirato, potenziali investitori pubblicitari, vogliono dati sempre più precisi così da poter indirizzare le proprie risorse verso il bersaglio più adatto.
I Data Broker raccolgono informazioni online sui consumatori da fonti pubbliche, le aggregano e le analizzano per poi vendere quei dati a terzi.
Per analizzare si intende una attività molto semplice, è come estrarre petrolio grezzo, la materia prima la hai, ma prima di diventare benzina deve subire altri trattamenti per aumentarne il valore.
Questo processo è fatto anche coi dati, si analizzano in modo da renderli più precisi, così da poter venderli ad aziende quasi sicuramente interessate.
Più son precisi meglio è e più il valore sale, poiché le aziende cercano target ben definiti a cui mostrare la pubblicità dei propri prodotti.
Questo processo è svolto da software che raccolgono i dati e li smistano nelle varie categorie correnti.
Lasciar tracce è inevitabile, dal momento che accediamo a un sito ne accettiamo i cookie e i termini e condizioni del produttore, da lì parte tutto.
Il problema sorge quando vendono i nostri dati a terzi a nostra insaputa, senza nemmeno avvisarci che verranno usati per scopi commerciali (si spera dato che non sappiamo né a chi vengono venduti i dati né a che scopo li useranno).
Il fenomeno della vendita di dati non è nuovo, è presente da decenni ma con lo sviluppo di internet si è allargato molto.
Insomma, nel mondo online bisogna sempre andarci, come dice un famoso detto, “coi piedi di piombo”, anche se “salvarsi” è veramente difficile.